Piazza del Popolo, la storia non abita più qui

Da luogo della memoria a centro della polemica. Piazza del Popolo è il nervo scoperto della città, linea di confine tra una storia collettiva e l’incapacità dell’attuale scenario di rievocarla. È una identità che si smarrisce, che non si fissa più su mura, strade, su assiemi. Parli della piazza e avverti contrarietà, dissenso per una ricostruzione che avrà pure rinnovato l’anagrafe di questa parte della città, indebolendole però le radici. Una considerazione che si allarga a tutto il «Centro storico», e che è foriero di dibattito e di confronto, a tratti anche aspro. Non serve farci iniezioni di vita: il palio, la nuova illuminazione, un pò di animazione. Azioni utili, positive, che confermano la fragilità su cui poggia l’intero quartiere.
Non è solo questione di arredo. La vicenda di Piazza del Popolo non merita di essere ridotta a confronti fra rifiniture, effetti cromatici e piastrelle. C’è da distinguere fra semplice nostalgia e identificazione col tempo, da una parte, e annientamento di un comune denominatore dall’altra. Quanto avvenuto ha a che fare con questo secondo aspetto.
Da ieri c’è la fiera delle «Tradizioni di Popolo»: sette giorni in cui si andrà a curiosare fra prodotti tipici e artigianato, ad accompagnare i bambini per giochi e divertimenti. Chiuso il sipario, l’impressione (la certezza) è che tutto tornerà come prima, con l’incapacità della piazza di attrarre gente, di produrre storia, laddove si sono compiuti gli eventi di un’intera città. Si dirà che occorre guardare avanti, che occorre «pensare» europeo, che il futuro è nel villaggio globale. Il prezzo, per ora, sono le nostre radici cancellate.
Il tecnico:
«Un’architettura di tipo europeo»

L’acuto lo ha lanciato l’assessore Cucciniello: «Piazza del Popolo esprime una logica di recupero speculativa; è stato cancellato il valore tipologico, è diventata una corte a sevizio di un immobile condominiale». Una requisitoria che pare diretta ai proprietari, individuandoli primi responsabili dei guasti. Michele Famiglietti, ingegnere, incaricato di gestire il piano di ricostruzione per conto del consorzio dei privati, fa chiarezza sull’argomento.
Privati sul banco degli imputati, dunque.
«In verità, i documenti descrivono uno scenario diverso. L’assetto della piazza deriva da un piano di recupero del 1983, d’iniziativa comunale. I privati si sono adeguati alle prescrizioni dell’ente pubblico».
Chi ha ridisegnato la piazza?
«Volendo pensate a un progetto di qualità, il consorzio dei proprietari incaricò all’epoca il professore Sandro Raffone, ordinariodi conposizione architettonica presso l’Università di Napoli. L’incarico riguardò anche il basamento di tutto l’edificio. A distanza di anni il professore Raffone è diventato consulente per la qualità urbana del comune di Avellino».
L’attuate assetto della piazza appare troppo lontano dall’identità originaria.
«Non entro nel merito delle scelte del tecnico ma l’obiettivo perseguito è stato principalmente quello della interpretazione del luogo, piuttosto che la sua semplice riproduzione».
Che c’entrano le aiuole d’acciaio col passato?
«È la rivisitazione dei banchi sui quali si esponeva la merce, per il tradizionale mercatino. Una riproduzione in chiave moderna, un’archiettura nuda ed essenziale, di tipo europeo, che vuole testimoniare lo sconvolgimento creato dal sisma. Così va intesa anche la pietra sulla quale figura il nome della piazza capovolto».
Come mai il progetto non è ancora concluso?
«I privati hanno realizzato tutte le opere di propria competenza. Gli ultimi elementi, come l’illuminazione, le panche, il blocco fontana, toccano al Comune. Peraltro, il consorzio dei proprietari vanta un credito, sui fondi della ricostruzione, pari a 420mila euro. Si potrebbe discutere se il progetto di sistemazione delle strade, a contorno, si integra con la piazza. Forse sarebbe preferibile evitare il transito automobilistico».

L’ex sindaco:
«Non si riconosce più niente»

Giovanni Pionati, l’altra voce: quella dello storico, del letterato, dell’ex primo cittadino. Piazza del Popolo era il «luogo» per elezione: convergenza di strade, genti, commercio, socialità. L’ex sindaco, chiamato alla carica nell’anno del tragico terremoto, rievoca la dimensione originaria della piazza, recriminando lo stravolgimento compiuto.
Cos’è che non le piace?
«Tutto. La piazza è stata distrutta due volte. Solo la prima non è stata colpa degli uomini. Era l’area più importante di Avellino, la piazza fuori le mura. Un luogo nato nel Medioevo, che andava tutelato, valorizzato».
Di chi è stata la colpa?
«Non lo so, forse di tanti. Dov’era la testa, quando sono state fatte certe scelte? Faccio il caso del Seminario. Una struttura tirata su la prima volta nel ’600. Lo abbatterono negli anni dopo il terremoto, con la promessa di ricostruirlo. Poi vennero fuori delle ossa, dei vincoli. Era stata messa anche la prima pietra, con una cerimonia ufficiale. Non se n’è fatto più nulla. Ora lo stanno ricostruendo in via Morelli e Silvati. Ma che senso ha?».
Si parla di speculazioni, di un recupero che ha cancellato il valore ideologico del luogo.
«Piazza del Popolo era un teatro. È stata distrutta un’armonia. Sul piano architettonico sono accadute cose oscene. È sfuggito il senso di una presenza che esprimeva il valore di baricentro dell’intera comunità. Ho pubblicato un libro, qualche tempo fa. Ci sono immagini, tavole, che riproducono quella piazza. Per l’avellinese era il punto di aggregazione della giornata. I banchi di vendita, i personaggi: le generazioni passano ma la radice, il ventre della città doveva ancora vivere. Provate a fare un giro nella zona, provate a riconoscervi in qualcosa».
Qual’è il rapporto di Avellino con la sua Storia?
«Qui si abbatte il passato. In futuro capiremo il perchè. C’è un furore demolitorio che ha riguardato tanti altri punti. Faccio l’esempio della Porta beneventana. È stata distrutta, rimossa come pietra e come memoria. Al suo posto hanno messo degli alberi. Magari sono pure soddisfatti della scelta. Un pò di aiuole al posto della Storia. E nessuno, in quel consiglio comunale, che si alzi a dire qualcosa».
emmeci
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