Si è spento Adriano Lombardi
Non c'è l'ha fatta Adriano si è spento nella notte all'età di 62 anni, il mitico capitano dei lupi della stagione 77-78 quella della promozione dalla B alla A, ha allenato anche la prima squadra. Con lui va via un pezzo di storia del Calcio Avellino, la squadra impegnata per la trasferta di sabato a Messina, scenderà in campo con il lutto al braccio.
Nel ricordo del grande campione riportiamo l'intervista rilasciata a Repubblica, quando con grande coraggio e dignità, dichiarò all'Italia intera di essere affetto dal morbo di Gherig.

Intervista rilasciata a Repubblica 14/02/2003

Ho giocato con Tardelli e Vierchowod, ma adesso non ce la faccio nemmeno a
grattarmi la testa. Lo devo chiedere alle mie bambine. Ho fatto i corsi di
allenatore con Lippi e Scoglio, ma ora non riesco più a girarmi nel letto. Lo
devo chiedere a mia moglie. Ho giocato 500 partite di campionato, quasi tutte
con la fascia da capitano, ora non posso giocare più a niente, nemmeno a
vivere. Sono un altro calciatore condannato dal morbo di Gehrig, come
Signorini, morto l'anno scorso a 42 anni, come Minghelli, che ha 30 anni e come
me è sulla sedia a rotelle".

Adriano Lombardi muove ancora un po' le mani. Ma solo un po'. "L'ultima volta
che ho preso in braccio mia figlia, mi è caduta, è stato mesi fa. Non riesco
più a stringere nulla, questa malattia si mangia i muscoli. Mi sono accorto che
qualcosa non andava quando non ho più avuto la forza di farmi la barba. Ma
tutto è cominciato due anni fa, con dei crampi pazzeschi in tutto il corpo, mi
facevano male anche le costole. Così sono andato al neurologico di Napoli, dove
mi hanno tenuto in ballo per dieci mesi, senza dirmi niente. Poi ho visto il
povero Signorini in tv, e quella sera andando a letto ho pensato: anch'io ho
quella cosa lì. Ho chiamato a casa sua, ho parlato con la moglie, mi ha detto
che Gianluca era sempre stanco, che non parlava, che non deglutiva, che la
malattia si poteva diagnosticare, c'era un esame da fare. Sono andato dal
professor Silani, mi ha messo aghi ovunque, potenziali evocati, così si chiama
l'esame. In tre giorni ho avuto la risposta: morbo di Gehrig, Sla, sclerosi
laterale amiotrofica. Ma non l'ho detto a nessuno. Sono uscito dall'ospedale di
Milano e appena sono salito in treno mi hanno chiamato per offrirmi la panchina
del Campobasso. Sul momento ho pensato: perché no? Poi mi sono detto: ma dove
vado? Cammino a fatica, non riesco a vestirmi. Così ho trovato una scusa".

Lei ha smesso di giocare nell'83. Quasi vent'anni fa.
"Sì a 38 anni, dopo 18 campionati, l'ultimo a Como, ho fatto anche una stagione
in Svizzera, un ambiente tranquillo, pagano bene, ma non è calcio. E poi sono
razzisti, se non parlavi in tedesco i giornalisti non ti stavano a sentire,
anzi per protesta abbandonavano la sala-stampa. Io ho cominciato presto a
giocare a calcio, sono nato a Ponsacco, in provincia di Pisa, nel '45, facevo i
sacrifici per andare ad allenarmi a Pontedera, 60 chilometri tra bici e
corriera, a 19 anni arrivai nel settore giovanile della Fiorentina, niente
prima squadra, c'era Chiappella come allenatore e in campo gente più brava di
me, Chiarugi, De Sisti, Merlo. Così cominciai a girare l'Italia: a Cesena in C,
a Empoli, a Lecco, a Como, a Rovereto, a Piacenza, a Perugia, ad Avellino
giocavo con Roggi, con Montesi, che sul calcio diceva delle cose terribili ma
vere, e che in campo dava l'anima, con Galasso che era di Lotta Continua. Come
allenatori ho avuto Bersellini, Marchioro, Marchesi. In serie A ho segnato tre
gol, a Tancredi, Piotti e Bordon. Ero soprattutto un organizzatore di gioco. Ma
sono diventato famoso perché nella partita Milan-Avellino, nel 1978, avevo
dimenticato i documenti, e l'arbitro Mattei fu inflessibile. Disse che non mi
conosceva e mi fece accomodare in tribuna. Il giorno dopo alcuni giornali
riportarono le foto di tutte le volte in cui Mattei mi aveva arbitrato".

Ha avuto incidenti seri in carriera?
"No. Nessuna operazione. Ginocchia a posto. Ho avuto fratture alle caviglie, ho
portato il gesso. Ho preso molti antidolorifici e antinfiammatori, allora si
usava il Voltaren, mi hanno fatto flebo, questo sì, ma non solo a me. Dicevano
che erano acqua e zucchero, mi sono fidato, cosa ci fosse dentro non so. Non ho
sospetti, non ho dati che mi dicano che questa malattia è professionale. Ma il
mondo del calcio è l'unico che conosco, m'imbarazza chiedere, non voglio
privilegi, ma se devo, preferisco rivolgermi ad un ambiente che conosco e che è
stato la mia vita".

Per le cure si è rivolto anche all'estero?
"Sì a Pittsburgh, mi hanno detto che potevano solo confermare la diagnosi.
Prendo il Rilutek che dovrebbe ritardare l'effetto degenerativo. E' una
malattia subdola, perché quando ti manda avvisi è troppo tardi. Da giugno ad
oggi mi ha ammazzato, non riesco a piegare la mano destra, non riesco a
chiudere la sinistra. I muscoli diventano insofferenti, hanno contorsioni, si
muovono da soli, il termine è fascicolazione. Mi sono anche rivolto alla
dottoressa Letizia Mazzini a Torino, che sperimenta il trapianto di cellule
staminali. Però in questo momento tutto è sospeso. Dico la verità, io sono
pronto a fare qualsiasi cosa mi propongano. Tre mesi fa ho guidato l'auto fino
in Calabria, è stato il mio ultimo atto di indipendenza. Da allora non esco più
di casa, sono prigioniero della malattia, della carrozzella, di un'abitazione
che devo modificare perché ormai non riesco più a muovermi. L'ultima volta che
ho provato ad entrare nella vasca da bagno da solo mi sono rotto una costola.
Luciana, mia moglie, è convinta che certe analisi fatte sei anni dopo aver
smesso di giocare, evidenziavano qualcosa che non andava".

Come ha dato la notizia ai suoi figli?
"Ai tre più grandi, a Filippo e ad Andrea che sono gemelli e hanno 31 anni, a
Paola che ne ha 29, ho detto le cose chiaramente. Sono figli della mia prima
moglie, morta a 42 anni di un tumore che dal seno era arrivato al cervello.
Anche se non stavamo più insieme, sono andato ad assisterla, perché lei me lo
aveva chiesto. E non dimenticherò mai, quando ormai non riusciva più a
respirare, i suoi occhi dilatati, che quasi uscivano fuori dallo sforzo. Ho
paura, so che mi aspetta la stessa fine, pensavo di essere uno che ha forza e
coraggio, che riesce a tenere la testa insieme, invece non va così. Hanno paura
anche loro, i miei ragazzi, che hanno già perso la mamma".

Lei ha anche due gemelle di quattro anni.
"Sì, Sara e Mara, che ho avuto da Luciana, la mia seconda moglie, che ha 14 anni
meno di me. Se chiedo aiuto, se ne ho diritto, è soprattutto per loro, per non
ridurle a fare le mie schiave. Finora non ho mai dato notizia della mia
malattia perché non volevo essere un caso pietoso, ma adesso non ho più tempo.
Questa malattia ti mangia in fretta, come farò con il computer quando non
muoverò più le dita? Dove e con che cosa passerò i miei giorni? Nella mia
carriera ho guadagnato e non ho buttato via i soldi, ma adesso ho bisogno di
una gestione diversa della mia vita, da solo non ce la faccio più".

E' un caso che il morbo di Gehrig stia attaccando i calciatori? Si parla di 13
morti e di altri 32 affetti dalla malattia?
"Vuole sapere se la causa è il doping? Non lo so. Io per conto mio non mi sono
mai dopato. Ho avuto un compagno che una volta mi disse di aver preso una
pasticca, visto che la partita era molto importante, credo avesse preso una
sostanza eccitante. Io vengo da una famiglia di sport, mio padre giocava
centravanti, fu squalificato per cinque anni perché picchiò un arbitro che gli
aveva annullato un gol. Siamo gente di campo, piena di difetti, ma non da
doping. Le città che da allenatore ricordo con più piacere sono Giarre, dove
andavo sempre a pescare e Trieste dove in certi bar i vecchi andavano a giocare
a dama e a parlare di letteratura. E io stavo lì ad ascoltare. Ma adesso non ho
più tempo".

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